sabato 25 ottobre 2025

April ( Dea Kulumbegashvili , 2024 )

 



IMDB

Giudizio: 8/10

April di Dea Kulumbegashvili è un secondo lungometraggio che conferma, con una nettezza quasi spietata, la forza di una regista già pienamente formata: un cinema di inquadrature-architetture, di silenzi carichi e di fuori campo che pesano come colpe collettive. 
Presentato in Concorso a Venezia 81, il film ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria cui ha fatto seguito una notevole scia di altri riconoscimenti: una serie di premi che fotografano bene la particolarità di un’opera radicale ma lucidissima, capace di unire forma rigorosa e urgenza etica.
La protagonista è Nina (una intensissima Ia Sukhitashvili), ginecologa in una provincia georgiana. Un neonato muore dopo un parto apparentemente di routine: da quel momento la donna finisce sotto indagine, mentre in paese circola la voce — più o meno sussurrata — che Nina pratichi aborti clandestini. Il racconto non procede per colpi di scena ma per pressioni: indagini, domande insinuanti, corridoi d’ospedale, cucine domestiche dove la medicina diventa gesto di sopravvivenza.
Kulumbegashvili inserisce questa storia in un contesto che non ha bisogno di proclami: in Georgia l’aborto è “tecnicamente” legale entro certi limiti, ma una cultura del silenzio e dello stigma lo rende spesso inaccessibile, spingendo molte donne verso la clandestinità. È la regista stessa a parlarne apertamente, e il film ne restituisce la tensione quotidiana senza trattati didascalici.
Lo stile, già ammirato in Beginning, qui si fa ancora più ascetico e sensoriale: campi fissi, lunghi piani, dialoghi ridotti al necessario, una regia che “trattiene” più che mostrare, lasciando agli spazi il compito di raccontare la paura e l’isolamento. È un cinema che instilla inquietudine in ogni fotogramma, come hanno notato molte letture internazionali: non spettacolarizza, ascolta.
Una delle scene cardine dell’opera    un aborto domestico — è girata in tempo reale e senza elisioni, con una compostezza quasi documentaria che rifiuta la pornografia del dolore: lo sguardo resta fisso, i suoni (respiri, fruscii, piccole frasi) compongono la colonna emotiva. Non c’è catarsi: c’è la responsabilità di chi guarda.
Il fuori campo è la vera arma della regista: dietro le porte dell’ospedale, nelle stanze d’attesa, nei cortili serali si addensa la comunità — i mormorii, i giudizi, la misoginia ordinaria che si traduce in protocolli e verbali. È cinema che crede alla potenza del non visto, alla possibilità che un’inquadratura ferma contenga un mondo di forze invisibili: istituzioni, religione, morale, paura. La fotografia di Arseni Khachaturan, su 35mm, accentua la matericità degli spazi, la grana che sembra scorticare i volti e far affiorare la fatica del vivere.
A incrinare il realismo, facendo quasi approdare al surrealismo, interviene, qua e là, un’immagine perturbante: una figura senza volto, cascante, quasi una creatura che attraversa il film come simulacro della paura (o del senso di colpa) che la comunità proietta sul corpo femminile;  un gesto che produce sconcerto e disorientamento, ma , strano a dirsi, sembra quasi coerente col racconto e con l’atmosfera.
Nina non è martire né santa: è una professionista competente, testarda, stremata da un lavoro che la espone e la isola. Il rapporto con l’ex compagno David, coinvolto nell’indagine, e con il primario serve alla regista per mappare un ecosistema maschile capace di compassione a ore e di giudizio a tempo pieno. Sukhitashvili costruisce una presenza scavata e opaca: i suoi silenzi non sono retorici, sono strategie di sopravvivenza.



La forza di April è nell’etica dello sguardo: non esibisce, accompagna. Nel parto iniziale, l’assenza di tagli ci costringe a condividere il tempo dell’evento; nell’aborto in cucina, la macchina da presa rifiuta la morbosità e si affida all’ascolto
È un cinema che non spiega ma espone, che rifiuta slogan e preferisce mettere il pubblico alla prova. In questo senso April è politico senza diventare pamphlet: fa vedere cosa accade quando il diritto (o la sua apparenza) si scontra con il costume, e quando la cura medica viene criminalizzata dalla paura.
Come in Beginning, la terra — cortili, strade, cucine, corsie — non è sfondo ma personaggio: la Georgia non è mai cartolina, è ecosistema morale e materiale. Kulumbegashvili parla del proprio Paese senza sconti né esotismi, e proprio per questo April parla a tutti. È un film che trova risonanza nel dibattito globale su corpi, diritti, bioetica, ma che resta attaccato ai microgesti di una donna che continua a fare il suo lavoro, nonostante tutto.
La produzione internazionale (tra gli altri, Frenesy di Luca Guadagnino) non addomestica la voce dell’autrice, semmai la amplifica, garantendo un apparato tecnico che rimane discreto e funzionale : Kulumbegashvili affida la drammaturgia soprattutto a silenzio e rumori, in coerenza con un cinema che crede nel potere acustico degli spazi.
April è un’opera esigente e necessaria: non cerca l’adesione emotiva facile né lo scandalo, ma la verità del processo — la pressione sociale, la burocrazia, il pregiudizio che si sedimenta nei gesti. Con il suo secondo film, Kulumbegashvili consolida una voce personale: georgiana fino al midollo e, proprio per questo, universale. Il Premio Speciale della Giuria a Venezia non premia solo un tema “forte”, premia un’idea di cinema come responsabilità: guardare, farci guardare, e resistere.
Nel 2020 con Beginning, Dea Kulumbegashvili aveva già attirato l’attenzione internazionale con un’opera dirompente: la storia di una donna legata a una comunità religiosa di Testimoni di Geova, costretta in una realtà soffocante e intrappolata in un ciclo di violenza e sottomissione. Quel film colpiva per l’uso radicale dei piani fissi e per un’estetica quasi glaciale, capace di trasmettere la rigidità di un mondo oppressivo.

giovedì 23 ottobre 2025

Hard Truths [aka Scomode verità] ( Mike Leigh , 2024 )

 



IMDB

Giudizio: 7.5/10

Hard Truths è un film drammatico del 2024 scritto e diretto da Mike Leigh, che riprende molte delle ossessioni già presenti nella filmografia del regista britannico: il peso del passato, la difficoltà di convivere con verità non dette, la crisi interiore, il fallimento delle relazioni fondamentali. 
Protagonista è Pansy Deacon, interpretata magistralmente da Marianne Jean-Baptiste, una donna depressa, ipocondriaca, incattivita col mondo  che lotta con la vita quotidiana, con i rapporti familiari e con il proprio senso di sé. 
La vicenda si svolge essenzialmente nella Londra contemporanea, in una casa modesta, nei supermercati, nei rapporti interni in famiglia, nei momenti ordinari (anche se molto carichi emotivamente). Pansy vive con il marito Curtley, idraulico, e il figlio adulto Moses, obeso, che sembra chiuso in se stesso in maniera ermetica , passivo. La sorella Chantelle, single con due figlie adulte, è una figura contrastante: cerca di mantenere un equilibrio, di essere di sostegno e di fatto è l’unica che si adopera per cercare di sollevare lo stato della protagonista. 
Il film non ha una trama “a grandi eventi”: è piuttosto uno studio del personaggio, un racconto frammentato di tensioni quotidiane, litigi, passeggiate nell’ignoto della vita affettiva, ricordi e, soprattutto, resistenza a ciò che è inevitabile. La morte della madre di cui corre l’ anniversario e il confronto al cimitero tra le due sorelle  sono i momenti che portano alla superficie conflitti lunghi, segreti, gelosie, paure, innescando dinamiche sopite.
Il ritmo è lento, composto di piccoli scenari, quasi micro-scene, che svelano gradualmente i disagi interiori. Non c’è un “colpo di scena” straordinario; piuttosto, Leigh procede per accumulo di tensione, mostrando come il passato non risolto, le ferite non elaborate agiscano su ogni interazione quotidiana. 
Pansy è una donna che vive con ansia, ipocondria, paura di uscire, disgusto per cose “normali” – fiori, animali – e un costante senso che qualcosa non va. È una vita attraversata da un dolore che non è esplicitato subito, ma che si percepisce nella sua rabbia accumulata pronta ad esplodere in ogni momento, nella sua tensione emotiva. 
Questa condizione mentale la separa non solo da sé stessa (cioè dalla possibilità di vivere una vita meno carica di tensione), ma dagli altri: l’altro principale che la costringe a confrontarsi, sua sorella Chantelle, cerca di essere ponte, sostegno, ma anche questa relazione è fortemente squilibrata. Anche il marito e il figlio vivono di reazioni, di resistenze, e spesso subiscono.



Come in molti film di Leigh, la famiglia è luogo dove si accumulano aspettative non dette, preferenze percepite, ferite infantili che non sono state affrontate. Pansy crede di essere stata trascurata, non considerata, o valutata male, pensa che la madre preferisse Chantelle. Sono idee che possono essere vere, parzialmente vere, ma si mescolano a fantasmi interiori, rimpianti, ansie. 
C’è il dolore per la madre morta, i rapporti interrotti, forse la mancanza di una figura di riferimento, un’elaborazione del lutto che non è stata fatta. Queste “verità sepolte” non sono rivelate in un flashback esplicito, ma traspaiono, contaminano il presente. Leigh costruisce queste verità con precisione, senza retorica, ma lascia che emergano attraverso le azioni, le reazioni, il silenzio. 
Una delle tensioni centrali è il contrasto tra il desiderio di negare, sfuggire, e la forza della realtà, che non può essere ignorata: la morte della madre, la sofferenza interiore, il fatto che gli altri attendono qualcosa da Pansy, la vita quotidiana che preme. Pansy tenta di negare, minimizzare, difendersi, ma la realtà riemerge: il confronto al cimitero, la consapevolezza che la famiglia “la odia” o almeno la teme, la paura che non c’è amore. 
Le relazioni sono imperfette, segnate da incomprensioni. Il marito Curtley è una presenza che cerca di reggere, ma che sembra logorato; il figlio Moses è fragile, sembra non avere ambizioni ma forse ha solo paura, forse non ha mai avuto spazio per emergere; Chantelle è la sorella che prova ad amare, ma anche lei soffre, non sempre sa come agire. L’amore famigliare  è presente, ma è sporco, doloroso, spesso non ricambiato nella misura che ciascun personaggio vorrebbe. 
Una delle caratteristiche più forti del film è che Leigh non concede una soluzione facile né un epilogo consolatorio. Anche quando Pansy sembra esporsi, confessare la paura, nell’incontro col cimitero, nell’ammissione “sono così spaventata”, non c’è una guarigione repentina, né una redenzione netta. Il film lascia aperto lo spazio d’incertezza: la possibilità che le cose restino come sono, o che qualche piccolo cambiamento possa emergere ma gradualmente.
Come accennato, il film è episodico, costruito su micro-scenari che fanno emergere pezzi della personalità di Pansy, dei suoi fantasmi, della tensione con gli altri. Ogni scena ha il valore di svelamento parziale: un litigio, un’uscita, un confronto. Questo tipo di struttura riflette la concezione che Leigh ha dell’esperienza umana: la vita non è fatta di picchi narrativi classici, ma di cumuli di tensioni sotterranee, di abitudini, di dolore che ribolle sotto la superficie. I temi emergono per accumulo, per contrasto, per ripetizione, non per esibizione.
Molti dei temi di Hard Truths sono coerenti con quelli che Leigh ha esplorato in altri suoi  film: il ritratto morale e psicologico del personaggio , spesso in pesante contrasto con se stesso, e ricco di contraddizioni e di fragilità esplosive; la famiglia come nucleo nel quale si celano le memorie, le situazioni non risolte , veri e propri misteri che condizionano le esistenze; l’aspetto politico inteso come rapporto tra individuo e contesto sociale che crea pressioni , anche se in questo lavoro è un aspetto meno incisivo ed infine uno stile in cui realismo, attenzione al dettaglio, tempi dilatati e improvvisazione concorrono a creare una verità relazionale.

domenica 19 ottobre 2025

The Phoenician Scheme [aka La trama fenicia] ( Wes Anderson , 2025 )


 


IMDB

Giudizio: 5/10

Wes Anderson è da anni uno dei registi più riconoscibili del cinema contemporaneo, amato e ignorato in egual misura proprio per quella sua ossessione stilistica che lo rende immediatamente riconoscibile. 
Con The Phoenician Scheme (La trama fenicia), presentato a Cannes nel 2025, Anderson sembra voler compiere un passo diverso, quasi a smentire chi lo accusa di essere prigioniero della propria maniera. L’intenzione, almeno sulla carta, è quella di costruire un film dalla trama più corposa e con un respiro più ampio, capace di affrontare temi di carattere politico ed economico oltre alle consuete dinamiche familiari che popolano il suo cinema. Ma il risultato, a conti fatti, conferma in larga parte le difficoltà di un autore che sembra non riuscire ad abbandonare il suo “marchingegno visivo”, anche quando la storia lo richiederebbe.
La vicenda è ambientata in una Phoenicia immaginaria del dopoguerra, una cornice volutamente indefinita che permette a Anderson di mescolare suggestioni storiche e invenzioni estetiche. Il protagonista è Anatole Korda, interpretato da un magnetico Benicio del Toro, un industriale e mercante d’armi che sopravvive a un attentato e si trova costretto a fare i conti con la propria vita, i suoi affari corrotti e soprattutto con il rapporto interrotto con la figlia Liesl (Mia Threapleton), novizia in convento. 
Attorno a loro si sviluppa una grande operazione economica che coinvolge cartelli finanziari, trame di potere e inganni, mentre sullo sfondo fanno capolino apparizioni ultraterrene, come se l’aldilà fosse pronto a giudicare il peso morale di ciascun personaggio. La presenza, come sempre, di un cast corale – Michael Cera, Scarlett Johansson, Tom Hanks, Bryan Cranston, e molti altri – completa il quadro, ma spesso queste figure funzionano più come elementi decorativi che come reali motori narrativi.
Il tentativo di Anderson è chiaro: abbandonare il bozzetto per abbracciare un racconto più ambizioso, quasi epico, che metta insieme la critica al capitalismo sfrenato e un nucleo intimista di riconciliazione familiare. Ma nel passaggio dal progetto alla realizzazione si percepisce lo scarto. 
Il capitalismo viene raccontato attraverso simboli e schermate – cartelli contabili, elenchi, capitoli scanditi da aggiornamenti finanziari – che rendono l’ingiustizia sociale un fenomeno osservabile a distanza, quasi un modellino da esporre sotto vetro. 



Non si sente mai davvero il peso delle conseguenze sui corpi o sulle vite, perché la satira resta elegante e ben confezionata, ma senza graffiare. Il rapporto padre-figlia, che dovrebbe essere il cuore emotivo della pellicola, si affida più alla bravura degli interpreti che a una vera costruzione drammatica: Del Toro incarna alla perfezione l’ambiguità di un uomo diviso tra cinismo e superstizione, mentre Threapleton sorprende per delicatezza e misura, ma il loro legame rimane un concetto più che un’esperienza tangibile.
La struttura del film accentua questa impressione. Divisa in capitoli, punteggiata da inserti che oscillano tra il metafisico e il burocratico, appare come un meccanismo perfettamente, ma altrettanto freddamente, disegnato ma incapace di generare emozione. 
Ogni elemento sembra pensato per rimarcare il controllo assoluto del regista: le simmetrie ossessive, i dolly laterali, i tableau dai colori controllatissimi, la recitazione in sottrazione che sfiora il grottesco. È lo stile andersoniano al massimo della sua purezza, ed è proprio qui che emergono i limiti: invece di sostenere la storia, finisce per soffocarla.
Collocare The Phoenician Scheme nella filmografia di Anderson significa riconoscere sia la sua ambizione sia la sua incapacità di superare davvero sé stesso. 
Nei primi film, da I Tenenbaum a Moonrise Kingdom, lo stile raffinato era sempre al servizio di personaggi feriti e riconoscibili, e le geometrie visive non impedivano alla vulnerabilità di trapelare. Grand Budapest Hotel quella formula si è trasformata in un gioco più compiuto e calligrafico, ma era sorretta da una vena tragica che le dava profondità. 
Negli ultimi lavori, invece, Anderson si è ripiegato su un cinema che parla soprattutto di sé stesso: The French Dispatch come antologia di racconti giornalistici, Asteroid City come riflessione meta-teatrale. The Phoenician Scheme sembra voler reagire a questa autoreferenzialità, scegliendo una trama più ampia, più politica, e cercando di dare sostanza al suo universo. Ma anche qui, il dispositivo stilistico non si apre: ogni volta che la storia potrebbe vibrare, interviene la griglia estetica a ricondurre tutto entro schemi rassicuranti.

domenica 14 settembre 2025

El Jockey [aka Kill the Jockey] ( Luis Ortega , 2024 )

 



IMDB

Giudizio: 8/10

Luis Ortega costruisce con El jockey (Kill the Jockey come titolo internazionale), lavoro presentato a Venezia in Concorso dove ha ottenuto premi collaterali e da dove ha iniziato una lunga carrellata di partecipazioni a festivals, un neo–noir surreale che si diverte a sabotare qualunque cornice di genere: è insieme crime, farsa, melodramma amoroso e “sports movie” di riscatto, ma continuamente spostato su un piano onirico e burlesco. 
Non stupisce che la critica anglofona l’abbia descritto tanto come “surrealist neo-noir psychological drama” quanto come “wild and surreal crime comedy”: due definizioni solo in apparenza inconciliabili, perché il film vive esattamente nella frizione fra questi poli. 
Remo Manfredini è un fantino leggendario e autodistruttivo, grandi vittorie ma anche grandi cadute, praticamente in mano ad un boss malavitoso che manovra le scommesse delle corse dei cavalli e verso il quale ha un debito cospicuo; suo contraltare la  fidanzata, anch’essa fantina, in attesa di un suo figlio, che cerca di proteggerlo e di tirarlo fuori dai guai.  Un incidente (che costa la vita a un cavallo) e che impedisce a Sirena , il boss, di guadagnare un bel gruzzolo, lo scaglia fuori pista, ricoverato in apparenza senza possibilità di uscirne più in un ospedale. 
Ma poi qualcosa succede: Remo sembra riprendersi, si mette addosso quello che trova , anche abiti femminili e scompare dall’ospedale scivolando nella pancia notturna di Buenos Aires mentre Sirena,  e Abril, compagna e collega incinta, provano a ritrovarlo. 
Ortega usa questa premessa da thriller di caccia all’uomo per un viaggio picaresco a episodi, fatto di incontri, travestimenti e svolte che sembrano partorite dal sogno.
La struttura è ellittica e centrifuga, a tratti sembra di salire su una giostra da luna park: ogni segmento ribalta il precedente, imponendo allo spettatore una continua ri–negoziazione di senso; il “ritmo” non è quello della progressione sportiva (allenamento–caduta–rimonta), ma del vagabondaggio: Remo come un Arlecchino metropolitano attraversa micro-mondi (camera d’albergo, sale da ballo, retrovie del gioco clandestino) che si aprono e si richiudono come baracconi di un circo sgangherato, dando una impronta sempre più surreale al racconto.
Visivamente, Ortega predilige sbilanciamenti di tono: realistico sporco subito strappato da inserti assurdi, gag muta e faccia impassibile dello straordinario protagonista che – come è stato notato – ricorda la maschera del cinema slapstick (Buster Keaton come santo laico del film). È un pastiche consapevole: il noir viene alleggerito dal comico, il comico viene inquietato dal perturbante con lo sfondo di una Buenos Aires vintage che lascia fluire quel fatalismo e quelle atmosfere vissute che sono uno dei punti di forza cinematografici del cinema argentino.



Il cuore del film è l’idea che l’identità sia un abito di scena: la indossi, ti indossa, poi smette di starti bene. Remo si muove lungo un continuum di genere e ruolo, fino a spingersi in una metamorfosi che il film tratta con naturalezza e ironia: “Remo diventa Dolores” in uno dei passaggi più discussi, evitando di rubricare la trasformazione come “colpo di scena” e lavorandola invece come rivelazione di qualcosa che c’era già. È una scelta che scarta tanto il didascalismo sociologico quanto la pruriginosa “freakification”: la fluidità è messa in scena come linguaggio del desiderio (di sopravvivere, di amare, di cambiare pelle) più che come tesi.
Sul piano teorico, Ortega gioca con l’idea – dichiarata dal regista – che “nessuno sa chi è”, e che alcuni restano aggrappati al proprio personaggio. È un cinema che smonta la categoria del “vero io” e la sostituisce con il vero momento: ciò che sei, ora, in questo frame, in questo travestimento. La maschera diventa verità situata, non menzogna. 
Drammaturgicamente, tutto prende avvio da una morte (il cavallo abbattuto) e da un quasi-decesso (l’incidente di Remo); nel loro riflesso si organizza un rito di passaggio: Remo deve “morire e rinascere”, come gli rinfaccia Abril in una battuta-chiave, perché solo una morte simbolica permette di azzerare i ruoli che ti schiacciano e di riemergere come altro da sé. Ortega piega così la grammatica del “film sportivo di riscatto” in una Via Crucis laica, dove l’allenamento non è fisico ma metamorfico.
Remo è presentato come corpo iper-fisico e vulnerabile: cicatrici, astinenze, appetiti. Il film insiste su una animalità magnetica, spesso citata anche dai materiali promozionali, che sbriciola dualismi rigidi (maschile/femminile, umano/animale, padronanza/dipendenza). La corsa del cavallo diventa metafora del desiderio senza briglie: impetuoso, pericoloso, indomabile. 

sabato 30 agosto 2025

Her Story / 好东西 ( Shao Yihui / 邵艺辉 , 2024 )

 




Her Story (2024) on IMDb
Giudizio: 8.5/10

Dopo B for Busy (2021), piccolo caso di commedia urbana tutta al femminile, Shao Yihui torna a osservare la contemporaneità cinese con un film che ne afferma pienamente lo sguardo autoriale, una opera seconda che conferma brillantemente il talento della regista cinese. 
Her Story è un’opera che nasce dall’interno della società cinese, non contro di essa, ma con un’ambizione gentile e radicale: quella di raccontare le donne nella loro verità quotidiana, senza bisogno di ribellioni spettacolari, ma con una costanza narrativa che disinnesca lo stereotipo, lavora sulla realtà e la restituisce senza filtri ideologici. 
È un film che potrebbe sembrare piccolo, ma che si rivela invece enormemente denso: non solo per i temi che affronta, ma per il modo, per il tono, per la scelta stilistica del non detto, del lasciar emergere, dell’invito allo sguardo; un nuovo modo di guardare alla Cina e ai suoi abitanti ormai giunti all’approdo della nuova società con tutti i pregi, difetti e problemi che comporta; lo sguardo di Shao è molto più simile al nostro di occidentali incalliti perchè le problematiche , i vizi e le virtù, i travagli e le scelte tormentate ed ineluttabili collidono e si fondono.
Il film racconta la quotidianità di Wang Tiemei (una splendida Song Jia), madre single che si trasferisce con la figlia Moli in un quartiere popolare della Shanghai contemporanea. Non c’è una trama in senso stretto, ma un movimento lento che segue le interazioni tra le due e la nuova vicina, Xiao Ye, giovane musicista anticonformista, interpretata da Zhong Chuxi. Le tre donne, attraverso incontri, confronti e piccoli gesti, costruiscono una rete silenziosa di ascolto e sostegno reciproco.
Ma Her Story non è un inno alla sorellanza in stile patinato: è un racconto che si prende il tempo della sfumatura, della contraddizione. La madre non è sempre paziente, la figlia non è sempre innocente, la vicina non è sempre disponibile. Le dinamiche di potere, i ruoli interiorizzati, le aspettative su cosa significhi essere donna, madre, figlia, vengono scardinate scena dopo scena. Il film non le rifiuta, ma le osserva da vicino. E questo “guardare” è già un gesto politico.
La città ha un ruolo fondamentale nel film: Shao Yihui ci restituisce una Shanghai non da cartolina, ma viva e stratificata, in cui la modernità convive con la precarietà. Non c’è il glamour da skyline, ma cortili condivisi, condomini con pareti sottili, autobus affollati, piccoli caffè, scuole affannate. Uno spazio femminile che si muove tra pubblico e privato, tra lavoro e casa, tra pressione sociale e desiderio di autonomia.
Shanghai è uno specchio: non solo di una Cina che corre, ma anche di una società che non sa come affrontare la trasformazione dei ruoli femminili. Le tre protagoniste si muovono dentro questi spazi cercando di ritagliarsi un’identità che non sia funzionale solo agli altri — al marito, al figlio, al datore di lavoro, alla società — ma a loro stesse. E il film ci mostra come questa ricerca non si traduca mai in affermazioni nette, ma in micro-resistenze quotidiane: dire no, uscire, cucinare diversamente, restare in silenzio.



Uno degli aspetti più sorprendenti del film è il modo in cui riesce a parlare apertamente (eppure senza proclami) di temi ancora fortemente tabù nel cinema mainstream cinese: mestruazioni, aborto, desiderio femminile, famiglia disfunzionale. 
In una scena che ha fatto discutere, la bambina Moli parla apertamente del ciclo mestruale della madre con candore e assenza di vergogna. Un gesto minuscolo, ma rivoluzionario. Il corpo femminile non è idealizzato, ma mostrato nella sua normalità biologica e nei suoi limiti. È un corpo che lavora, che cresce figli, che ha bisogno di spazio.
Il fatto che Her Story abbia passato indenne le forche caudine dalla censura è un piccolo miracolo, forse perché Shao Yihui non grida, non attacca, ma pone domande. E forse anche perché, dopo l’enorme successo di pubblico e critica di B for Busy, il suo sguardo è ormai riconosciuto come rappresentativo di una sensibilità urbana, colta e popolare allo stesso tempo. Ma il merito è tutto nel modo: nel raccontare queste donne senza renderle simboli, senza sacrificarle al bisogno di rappresentatività.
Lo stile visivo è fedele alla poetica della regista: camera fissa, montaggio rarefatto, dialoghi scritti con cura ma pieni di respiri e sovrapposizioni. Shao Yihui si conferma maestra del dettaglio domestico: una sedia spostata, un paio di calze lavate, un gesto di fastidio tra madre e figlia, un sorriso accennato durante un pasto. 

domenica 24 agosto 2025

Sotto le foglie [aka When Fall is Coming] ( François Ozon , 2024 )

 




When Fall Is Coming (2024) on IMDb
Giudizio: 8/10


Michelle, anziana vedova che vive nella campagna francese, divide le giornate tra la cura della casa e del giardino e l’amicizia con Marie-Claude, vicina di lunga data, madre di Vincent, un ragazzo che sta per uscire dal carcere dopo piccoli reati. 
Michelle ha un rapporto difficile con la figlia Valérie, donna divorziata, e riversa tutto il suo affetto sul nipote Lucas, un ragazzino che adora la nonna e ne è il centro di gravità. Quando Vincent torna in libertà, Michelle lo accoglie assumendolo come giardiniere. Il giovane, riconoscente, decide di aiutare la donna tentando una mediazione con Valérie per ricucire la frattura familiare. Ma durante l’incontro , Valérie muore precipitando dal balcone. Per alcuni un tragico incidente, per altri un gesto che nasconde ambiguità. L’equilibrio fragile tra colpa, perdono e seconda possibilità si incrina definitivamente, mentre il destino dei personaggi rimane sospeso tra la condanna sociale e l’illusione di una riconciliazione.
François Ozon, con When Fall Is Coming, realizza un film che si inserisce nella tradizione del dramma-thriller della provincia francese, capace di alternare la delicatezza dei gesti quotidiani e la durezza dei conflitti familiari. 
L’autunno del titolo non è soltanto una cornice stagionale, ma un vero e proprio stato d’animo: le foglie che cadono, i campi in riposo, la luce obliqua diventano specchio della fragilità dei rapporti umani e della loro precarietà.
Il cuore del film è l’ambiguità: la morte di Valérie ha solo un testimone sul quale grava il peso del suo passato prossimo segnato dal carcere e resta sospesa tra caso e colpa. Ozon evita di dare una risposta definitiva, l’incidente diventa così un prisma che riflette i timori e i pregiudizi dei vari personaggi. Vincent, ex detenuto appena reinserito, è il primo a cadere sotto il sospetto, anche solo per il suo passato; Michelle oscilla tra l’amore incondizionato per il nipote e la colpa per non aver saputo sanare prima lo strappo con la figlia; la comunità circostante si fa giudice silenzioso, pronta a emettere verdetti senza prove; ma soprattutto , grazie alla sua narrazione precisa e tagliente che spande sul film il seme del dubbio che si trasforma lentamente in tensione, Ozon sembra costruire un ambiente nel quale vanno a convergere personaggi distanti tra loro ma che comunque sembrano uniti  sotto una sorta di famiglia surrogata protettrice che va a sostituire e se necessario a distruggere quella tradizionale.



La colpa attraversa il film in più strati: individuale, familiare, comunitaria. Ozon lavora con grande sensibilità sulla dimensione religiosa della colpa: i riti cattolici, i funerali, le immagini sacre nelle case rurali sono costanti richiami a un’idea di peccato che non si cancella, ma può essere affrontato. 
La redenzione non è mai scontata, Vincent cerca di riparare attraverso gesti di lavoro, di servizio, di ascolto; Michelle, invece, è chiamata a guardare in faccia il fallimento del suo ruolo materno. 
L’autunno diventa quindi la stagione della resa dei conti: niente fioriture improvvise, ma la lenta consapevolezza che ciò che è caduto può solo trasformarsi in humus per qualcosa di nuovo.
Lucas, il nipote, rappresenta il futuro che osserva gli adulti e ne subisce le conseguenze. Il suo sguardo innocente interroga le bugie e i silenzi, e diventa la posta in gioco più alta: che tipo di eredità emotiva riceverà? 
Ozon affronta con tatto il tema dell’educazione dei figli: protezione e verità si scontrano, mostrando come la crescita passi non dal silenzio ma dall’assunzione del dolore. Lucas impara che la vita non è fatta di certezze, ma di zone grigie, e che proprio in quelle ambiguità si misura la possibilità di diventare adulti.
Il film si interroga sul tema cruciale del diritto a una seconda possibilità: Vincent, con il suo passato carcerario, incarna la figura del “colpevole già giudicato” che fatica a reinserirsi in una comunità pronta a ricordargli i suoi errori. Ozon non costruisce un ritratto agiografico, ma mostra la fatica quotidiana del reinserimento, la diffidenza sociale, la necessità di guadagnarsi ogni gesto di fiducia. 

mercoledì 20 agosto 2025

Kubi ( Kitano Takeshi , 2023 )

 




Kubi (2023) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

A distanza di sei anni dal suo ultimo lungometraggio, Outrage Coda, Takeshi Kitano torna al cinema con un film ambizioso e destabilizzante: Kubi. Lo fa riscrivendo le regole del jidaigeki – il film storico giapponese per eccellenza – e realizzando, nel suo stile beffardo e iconoclasta, una riflessione feroce e sarcastica sulla brama di potere, sull’instabilità delle alleanze, sull’assurdità della guerra e, in definitiva, sulla tragicommedia della storia umana.
Kubi significa "testa”, ed è esattamente quello che rotola per tutto il film. Ma le teste che cadono non sono solo trofei di guerra o punizioni per i traditori: diventano simboli di una civiltà costruita sulla violenza, sulla gerarchia e sulla perdita d’identità. 
Kitano non gira un film di samurai “in costume”, ma un’opera sul presente travestita da passato, capace di mettere a nudo le pulsioni di ogni epoca: la sete di potere, l’avidità, il cinismo. E lo fa senza retorica, ma con un sarcasmo irresistibile che mina ogni presunzione epica.
Il film prende spunto da un fatto storico reale: l’“incidente di Honnō-ji” del 1582, in cui il potente daimyo Oda Nobunaga venne tradito e costretto al seppuku da uno dei suoi più fidati generali, Akechi Mitsuhide. Kitano – che si ritaglia il ruolo di Mitsuhide – non si limita a raccontare i fatti, ma li destruttura, li trasforma in una spirale vertiginosa di tradimenti, colpi di scena, massacri e beffe, in cui ogni personaggio è pronto a pugnalare l’altro alla prima occasione.
La struttura narrativa è volutamente disorientante: le scene si susseguono con ellissi improvvise, i dialoghi si troncano, la storia salta avanti e indietro con una logica che ricorda più un sogno febbrile che una cronaca storica con una miscela quasi roboante di piani spazio-temporali. 
Lo spettatore è chiamato a ricomporre il puzzle, ma ogni tentativo di fare ordine è frustrato dalla natura caotica del potere, che è poi il vero protagonista del film.
In una recente intervista a Kinema Junpo, riguardo al concetto di ambizione,Kitano ha dichiarato
«Non mi interessava glorificare la storia. Mi interessa il modo in cui gli esseri umani diventano mostri quando l’ambizione prende il sopravvento.»



L’ossessione per il potere è la vera linfa che muove Kubi: ogni personaggio – da Hideyoshi a Tokugawa, dai vassalli minori ai generali più ambiziosi – è spinto da una brama incontrollabile di ascesa, di rivalsa, di dominio. Ma questa corsa non porta mai alla gloria: porta solo alla dissoluzione morale, alla paranoia, al sangue. Nessuno è mai veramente al sicuro, nessuno può fidarsi di nessuno.
La guerra è mostrata come un gioco sporco, dove la lealtà è una maschera e l’onore una parola svuotata di senso. 
Kitano distrugge l’immagine romantica del samurai: i suoi personaggi sono vili, ridicoli, spesso grotteschi. Eppure, in questa ridicolizzazione, emerge qualcosa di profondamente umano e tragico.
In una conferenza a Cannes 2023, quasi a rafforzare uno dei suoi concetti cardine della sua prospettiva  Kitano ha detto con il suo solito tono ironico:
«Nel mio film, nessuno è un eroe. Sono tutti idioti che si uccidono per un pezzo di potere. Forse è così anche nella politica di oggi.»
Il film diventa così una feroce parabola universale, che travalica i confini del Giappone feudale per parlare di ogni sistema di potere, in ogni tempo, con le sue dinamiche perverse e intricate.
Pur essendo tratto da un suo stesso romanzo storico (pubblicato nel 2019), Kitano non realizza una ricostruzione accademica del periodo Sengoku. I costumi, le architetture, le dinamiche tra clan sono credibili e curate, ma il regista si diverte a sabotare la gravità del contesto con scene al limite del grottesco, come samurai impacciati che inciampano, generali ridicolizzati, scene slapstick che ricordano il Kitano comico degli esordi televisivi.
Il film è un continuo alternarsi di momenti iperrealistici e deviazioni assurde, come a suggerire che la storia – anche quella più tragica – non è mai lineare né seria quanto vogliamo credere. È caos, disordine, casualità. E chi cerca di dominarla, finisce travolto.

sabato 28 giugno 2025

B for Busy / 爱情神话 ( Shao Yihui / 邵艺辉 , 2021 )

 




B for Busy (2021) on IMDb
Giudizio: 7.5/10


Con il suo film d’esordio B for Busy , la regista cinese Shao Yihui firma una delle opere prime più originali del cinema contemporaneo cinese recente, una commedia delicata e stratificata che si muove con grazia tra l'ironia, il realismo urbano e una sottile malinconia di fondo. Ambientato nella vivace ma anche logorante Shanghai di oggi, il film offre un’istantanea della vita adulta nelle grandi metropoli cinesi, mescolando osservazione sociale, riferimenti cinematografici raffinati e una narrazione corale dai toni agrodolci.
La storia si sviluppa attorno a Lao Bai, un insegnante di pittura di mezza età divorziato, interpretato con sensibilità da Xu Zheng (noto soprattutto per i suoi esilaranti ruoli brillanti e anche produttore del film), e a un gruppo di donne che gravitano intorno alla sua esistenza: la parrucchiera Miss Li (Ma Yili), l'artista Miss Zhao (Wu Yue) e la madre single Gloria (Ni Hongjie). 
Ognuno di loro porta con sé ferite invisibili, sogni rimandati e una voglia di rimettersi in gioco che si intreccia continuamente con la paura di rimanere delusi.I protagonisti sono adulti in preda ad un disincanto sentimentale che deriva da esperienze personali fatte di amori falliti, divorzi, compromessi dolorosi. Non ci sono illusioni giovanili, ma nemmeno cinismo assoluto. L’amore viene mostrato come qualcosa di fragile, a volte buffo, sempre necessario.
Attraverso piccoli dettagli — i commenti delle madri, i giudizi velati dei conoscenti — il film racconta la pressione esercitata dalle aspettative familiari e sociali, in particolare su donne che hanno superato la "giusta età" per sposarsi secondo i canoni tradizionali cinesi, un intrecciarsi di modernità e di tradizione spesso in conflitto che dipinge una società ormai giunta al capolinea finale della sua spettacolare trasformazione vissuta negli ultimi venti anni che avvolge anche Shanghai, una città che col suo cosmopolitismo storico diventa un po' un personaggio del film , quel futuro raggiunto da chi ha saputo salire sul treno della modernizzazione, ma al tempo stesso quella città dove ancora pulsa un cuore fatto di tradizione, ben rappresentato dalla regista con il ricorso pressochè totale al dialetto di Shanghai nei dialoghi del film.



La regista inoltre dimostra grande conoscenza del cinema anche europeo, affidandosi spesso ad atmosfere da novelle vague francese, racconti rohmeriani oppure ad atmosfere vagamente alla Wong Karwai; lo stesso fatto di dipingere Shanghai con la grazia di un pittore ma con la forza di uno scrittore rimanda alla mente agli storici binomi regista-città che hanno fatto la storia del cinema (Woody Allen e New York su tutti); queste influenze sono sempre metabolizzate e rielaborate in maniera personale da Shao Yihui, che costruisce uno stile proprio, fatto di delicatezza e ironia, di osservazione empatica e ritmo narrativo misurato.
Il film non racconta una grande avventura sentimentale, né cerca il dramma: B for Busy preferisce dipingere piccole scene quotidiane, incontri e dialoghi intimi che lentamente delineano il bisogno umano di compagnia, riconoscimento e amore in una società che, pur essendo iper-connessa, genera una profonda solitudine.
La Shanghai di Shao Yihui non è solo uno sfondo, ma un vero e proprio personaggio: una città cosmopolita, stratificata, moderna ma anche nostalgica, dove i caffè bohémien convivono con i vicoli tradizionali e dove il passato e il presente si scontrano continuamente.
Formalmente, B for Busy si presenta come una commedia sofisticata, ma dietro l’umorismo sottile si cela una dolce tristezza che accompagna i personaggi. I dialoghi sono brillanti, serrati ma mai teatrali, costruiti con attenzione quasi letteraria, capaci di far emergere, attraverso battute e silenzi, l'interiorità dei protagonisti.

sabato 7 giugno 2025

The Last Dance / 破·地獄 ( Anselm Chan / 陳茂賢 , 2024 )

 



IMDB

Giudizio: 7.5/10


Con The Last Dance, il regista e sceneggiatore Anselm Chan (al suo secondo lungometraggio dietro la macchina da presa) compone una raffinata partitura che intreccia il lutto e il riso, la tradizione rituale e la modernità urbana, la morte e – inevitabilmente – la vita. Un film profondamente radicato nel tessuto sociale e spirituale di Hong Kong, capace di raccontare un tema universale come il distacco dai propri cari attraverso uno sguardo fortemente localizzato e allo stesso tempo accessibile a un pubblico globale, elevandosi inoltre a metafora dello status dell'ex colonia britannica ancora in forte crisi di identità dopo il ritorno alla Cina mainlander
Dominic (interpretato con misura e humour dall'eccellente Dayo Wong, conosciuto soprattutto per i suoi ruoli brillanti) è un wedding planner sulla via del fallimento. Dopo la pandemia, il mercato dei matrimoni è in crisi, e lui si ritrova per necessità ( e in un certo senso anche per fortuna) a gestire un’agenzia funebre cedutagli da uno zio della fidanzata , prossimo alla pensione. È un uomo pragmatico, moderno, sdrucito nei sogni, esattamente l'opposto  del suo nuovo partner,  Master Ben Man ( interpretato dalla leggenda del cinema brillante dell'epoca d'oro di Hong Kong Michael Hui), un sacerdote taoista, socio del precedente proprietario dell'agenzia funebre, che incarna l’antico sapere, il rigore del rituale, la sacralità dell’aldilà. Tra i due si instaura una tensione che è prima di tutto culturale e simbolica: tradizione contro innovazione, passato contro presente, spiritualità contro economia.
Ma Chan non indugia nella contrapposizione dicotomica di facile presa; il film si costruisce proprio sulla lenta contaminazione tra questi due mondi: da un lato Dominic che pensa che tutto sommato gestire un funerale non è poi tanto diverso da organizzare un matrimonio ( con le inevitabili situazioni grottesche che questa convinzione produrrà) , dall'altro Man che vive il suo ruolo nella rigorosa osservanza dei principi taoisti immutabili da secoli.   Non c’è vittoria di uno sull’altro, ma una crescita reciproca. È qui che The Last Dance trova il suo tono originale: non una commedia slapstick, non un dramma metafisico, ma un ibrido curioso, capace di attraversare i registri con intelligenza e sensibilità.



Il titolo originale del film –  letteralmente "Rompere l'inferno" – richiama direttamente uno dei riti più affascinanti e complessi della tradizione funebre taoista: il Po Dei Juk , un rituale in cui il sacerdote, armato di una spada cerimoniale al culmine di una danza sfrenata rompe simbolicamente le barriere infernali per liberare le anime erranti dei defunti. È un rituale profondamente teatrale, fatto di maschere, danze, fuoco e musica, e proprio in questo carattere spettacolare Chan trova un parallelo con l’arte scenica del cinema e con la vita stessa.
Il regista filma questi momenti con rispetto antropologico ma anche con consapevolezza estetica: i riti non sono solo testimonianze etnografiche, ma diventano azioni drammatiche che coinvolgono i personaggi e lo spettatore. Non sono semplici “usanze locali”, ma vere e proprie narrazioni incarnate, capaci di dare senso e dignità alla morte, e soprattutto di creare una comunione  tra vivi e morti.
Uno dei meriti maggiori del film è la sua capacità di interrogarsi sul ruolo della morte nella società contemporanea, e in particolare nella Hong Kong post-coloniale e post-pandemica. In una città sempre più globalizzata, dove l'efficienza ha soppiantato la riflessione e il culto degli antenati rischia di ridursi a formalità, The Last Dance rivendica la centralità del lutto come pratica viva.
Attraverso il contrasto tra Dominic e Master Ben, Chan ci chiede: come onorare i morti oggi? Come trasmettere un sapere antico ai giovani che ne hanno perso il linguaggio? La risposta non è nostalgica, ma attiva: il film suggerisce che il rito non deve essere abbandonato, ma reinventato, non nel senso di “semplificarlo” o “adattarlo al mercato”, ma nel trovare nuove vie per mantenerne viva la potenza simbolica.
La linea narrativa che coinvolge Yuet (Michelle Wai, pluripremiata per questo ruolo), la figlia di Master Ben, introduce un ulteriore livello tematico. Infermiera che opera sulle ambulanze di soccorso, razionale e concreta, Yuet è cresciuta tra canti rituali e offerte di carta, ma ha scelto di vivere lontana da tutto questo, anche perchè i rigidi principi taoisti vietano alle donne , esseri impuri, di poter presenziare i9n prima persona nel ruolo di sacerdotessa.  La sua distanza dal padre è anche una metafora della rottura generazionale oltre che parabola sulla contrapposizione di genere; tuttavia, il riavvicinamento dei due – mediato proprio da Dominic, outsider profano – mostra come il trauma e la cura possano convivere.
Il tema della trasmissione intergenerazionale diventa così uno dei cardini del film: non si tratta solo di passare un’eredità materiale, ma una grammatica del dolore e della consolazione. La danza finale (che dà il titolo al film) non è solo un numero coreografico, ma un atto di riconciliazione, un gesto fisico di continuità.

giovedì 24 aprile 2025

Sons ( Gustav Möller , 2024 )

 




Sons (2024) on IMDb
Giudizio: 7/10

Con Sons, Gustav Möller, regista svedese di nascita ma danese cinematograficamente, compie un passo rischioso e necessario: si allontana dal thriller claustrofobico e sperimentale di The Guilty, la sua interessante opera prima, per abbracciare una narrazione più classica, fisica, che si nutre del corpo e dello spazio tanto quanto della tensione interiore. 
Ambientato quasi interamente tra le mura di un carcere  danese, il film racconta una storia apparentemente semplice: Eva, agente penitenziaria integerrima e rispettata, si trova a dover gestire il nuovo arrivato, Mikkel, giovane detenuto con un passato di violenza e sofferenza. Che l'agente abbia qualcosa a che fare col detenuto lo si capisce subito da quando osserva dalla finestra il suo arrivo al carcere e poi chiede di essere trasferita nella sezione per delinquenti incalliti e considerati irrecuperabili dove appunto è indirizzato il nuovo arrivato.
Tra i due si instaura da subito un rapporto ambiguo tra carnefice e vittima carico di tensione in cui i ruoli tendono a ribaltarsi  , un rapporto che progressivamente porta a galla colpe rimosse, ferite non rimarginate, bisogni di vendetta mascherati da aneliti di redenzione.
Möller costruisce il suo film come un duello silenzioso, dove ogni scambio, ogni gesto di vicinanza o di sfida, ogni sguardo trattenuto diventa un movimento nel gioco complesso del dominio psicologico. 
Non c'è mai, in Sons, una netta distinzione tra vittima e carnefice: Eva e Mikkel si osservano, si manipolano, si feriscono, in un ribaltamento continuo dei ruoli che smantella qualsiasi certezza morale. E proprio su questo crinale ambiguo si gioca la potenza del film: Möller non offre punti di vista privilegiati, non chiede allo spettatore di schierarsi, ma lo trascina in una zona grigia dove redenzione e vendetta si intrecciano fino a diventare indistinguibili.
La prima parte del film è un esempio magistrale di costruzione della tensione. Senza ricorrere a colpi di scena o a facili espedienti, Möller lavora sulla compressione degli spazi, sulla ripetitività dei gesti quotidiani, sulla sottile violenza che si insinua nei silenzi. Il carcere non è solo il luogo fisico della reclusione, ma diventa il simbolo della prigionia emotiva che lega i due protagonisti: Eva è intrappolata nel suo bisogno di espiazione attraverso la vendetta, Mikkel nella sua furia impotente contro un mondo che lo ha tradito molto prima del suo ingresso in carcere. Entrambi cercano nell'altro una forma di liberazione che non potrà mai arrivare.


La redenzione in Sons è una chimera: Eva tenta disperatamente di redimere Mikkel non tanto per salvarlo, quanto per liberare sé stessa dal peso della propria colpa. Ma ogni tentativo di salvezza si rivela un atto egoistico, un gesto di appropriazione che non rispetta l'altro come essere autonomo. 
Allo stesso modo, la vendetta di Mikkel, più sottile e psicologica che fisica, è una risposta al tradimento del mondo adulto, un tentativo di riaffermare una dignità negata, anche a costo di distruggere chi tenta di aiutarlo.
In questa dinamica implacabile, Möller si dimostra spietato e rigoroso: non concede sconti emotivi, non offre facili redenzioni né redenzioni spettacolari. I personaggi si muovono in un limbo morale dove ogni scelta sembra condannata al fallimento. Il film evita il melodramma ma ne conserva l'intensità emotiva, dosando con sapienza momenti di apparente stasi a esplosioni improvvise di violenza contenuta.
Dal punto di vista formale, Sons conferma la maturità di Möller: la regia è asciutta, precisa, capace di trasformare i corridoi anonimi del carcere in spazi carichi di minaccia latente. La macchina da presa segue i personaggi con discrezione, senza virtuosismi inutili, ma anche senza mai perdere di tensione. L'uso degli spazi chiusi, la fotografia fredda e priva di concessioni estetiche, la scelta di evitare musiche invasive, tutto contribuisce a creare un'atmosfera claustrofobica, tornando quindi per altre vie a quelle atnmosfere che dominavano The Guilty, che rende palpabile il conflitto interno dei protagonisti.
Fondamentale è il lavoro degli attori: Sidse Babett Knudsen offre un'interpretazione intensa e controllata, restituendo con grande finezza la complessità di Eva, il suo oscillare tra forza apparente e fragilità profonda. 

Bird ( Andrea Arnold , 2024 )

 




Bird (2024) on IMDb
Giudizio: 8/10

Andrea Arnold è da anni una delle voci più sensibili e coerenti del panorama cinematografico internazionale. Fin dai tempi di Red Road (2006) e Fish Tank (2009), la regista britannica ha raccontato con sguardo sincero la vita ai margini, scegliendo sempre storie di giovani donne in lotta con un contesto sociale difficile. Il suo cinema, caratterizzato da uno stile visivo ruvido e partecipato, si è sempre mosso tra il realismo più crudo e improvvisi slanci di lirismo.
Con Bird, presentato in anteprima al Festival di Cannes 2024, Andrea Arnold torna a raccontare il mondo degli ultimi, ma questa volta lo fa spingendosi ancora più in là nella ricerca di una forma narrativa libera, quasi istintiva, capace di fondere realismo sociale, favola urbana e racconto di formazione. 
Il risultato è un film che mantiene la durezza del reale pur aprendosi a spazi di immaginazione e di meraviglia, costruendo una storia che ha la leggerezza di un sogno ma il peso specifico delle esistenze ferite.
Al centro del film c’è Bailey, una dodicenne cresciuta in un ambiente familiare instabile: il padre, Bug, è un eterno adolescente incapace di prendersi responsabilità, più amico che genitore, mentre la madre è assente, persa in un’altra deriva pseudosentimentale tossica con a carico altre tre figli piccoli avuti da qualcun’altro e verso cui Bailey ha però un sincero affetto e amore quasi da surrogato materno. 
Quando Bug si prepara a risposarsi con una nuova compagna molto più giovane di lui, Bailey si sente tradita e smarrita. È in questo momento di crisi che la ragazza incontra Bird, una figura misteriosa, al tempo stesso reale e simbolica: un ragazzo-uccello, forse uno spirito libero, forse una creatura della sua immaginazione, sicuramente un essere bastonato anch’esso dalla vita sin dalla sua infanzia.
Attraverso l'incontro con Bird, Bailey intraprende un percorso di crescita fatto di scoperte, abbandoni, piccole rivolte e riconciliazioni interiori. Arnold costruisce la narrazione evitando la linearità tradizionale: la storia si sviluppa per accumulo di sensazioni, di piccoli eventi quotidiani, di dialoghi frammentati e immagini che evocano più di quanto raccontino esplicitamente.



Bird si iscrive nella lunga tradizione del realismo britannico, ma Andrea Arnold se ne distacca con decisione, rifiutando ogni didascalismo o giudizio: se si sente forte l’influsso di Ken Loach dal punto di vista delle atmosfere e delle ambientazioni, per certi versi però Bird richiama più alcuni tratti del cinema di Sean Baker e della sua impronta poetica.
Il contesto sociale in cui vive Bailey è quello di una working class disgregata, intrappolata in una periferia degradata e priva di futuro: case popolari fatiscenti, lavori precari, rapporti familiari sfilacciati. Tuttavia, il film non insiste sul degrado in modo compiaciuto o accusatorio. La regista mostra la povertà materiale e affettiva senza trasformarla in spettacolo, mantenendo sempre una profonda compassione per i suoi personaggi.
In questo senso, il tema della "famiglia" è centrale. Ma è una famiglia fragile, disfunzionale, in continua ridefinizione: non più un'istituzione rigida, bensì una rete instabile di relazioni, affetti spezzati e ricostruiti, errori ripetuti. Bug, interpretato con struggente verità da Barry Keoghan, incarna perfettamente questa ambiguità: è affettuoso ( a modo suo) ma irresponsabile, tenero ( sempre a modo suo) ma incapace di proteggere chi ama.
Il film si muove su un crinale sottile tra il dramma realistico e la favola contemporanea. Bird è il personaggio che introduce questa dimensione sospesa: figura eterea e sfuggente, a metà tra un ragazzo vagabondo e un'entità magica, egli incarna il desiderio di fuga e di leggerezza che Bailey prova ma non riesce a esprimere a parole. La regista non chiarisce mai del tutto la natura di Bird: è un vero outsider? Un angelo custode? Una proiezione della mente della ragazza? Un altro prodotto di una società spietata? Questa ambiguità è una delle forze del film: Arnold non cerca risposte definitive, ma suggerisce possibilità, aprendosi a un immaginario che richiama la letteratura fiabesca senza perdere il contatto con il terreno accidentato della realtà.
Il volo, la libertà, la trasformazione sono simboli ricorrenti. L'uccello — da sempre figura mitologica di passaggio, di cambiamento — diventa emblema del percorso interiore di Bailey, del suo bisogno di trovare uno spazio proprio nel mondo, di staccarsi da una condizione che sembra predeterminata.
Bird è anche e soprattutto un racconto di formazione in cui però, per fortuna, manca tutto quel corredo stilistico e di situazioni piuttosto dozzinali che si riscontra di sovente;  Bailey si muove attraverso un territorio emotivo accidentato: il senso di abbandono, il desiderio di essere vista e amata, la scoperta della propria forza. Arnold riesce a raccontare questa crescita senza didascalismi o tappe forzate, non c’è un evento traumatico risolutivo, ma una lenta, faticosa, bellissima presa di coscienza, costruita con la sua forza interiore e con il suo sguardo da adolescente matura.
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